ARISTOCRAZIA

Solo questa rappresentava la classe degli uomini completi; le altre, anche quella dei liberi, erano considerate non solo inferiori ma addirittura prive di quella pienezza dei valori umani che erano propri dell’aristocrazia guerriera. Non si trattava solo di una differenza fondata sulla ricchezza. Già all’epoca di Carlo Magno esistevano mercanti ricchi, anche se in piccolo numero, magari più ricchi di qualche valvassino; ma appartenevano tuttavia ad una classe inferiore, avevano altri diritti e altri doveri. E sarebbe stato per loro difficilissimo, per non dire impossibile, passare nell’aristocrazia, ossia nel mondo feudale: non avrebbero mai trovato un signore disposto a ricevere il giuramento di fedeltà, l’omaggio, da uomini che non avessero sempre esercitato la professione delle armi.

OMAGGIO

Prestare omaggio, darsi a un signore come suo uomo fedele, non costituiva una diminuzione dell’individuo, ma, al contrario, significava essere ritenuti capaci di mantenere fede al giuramento fatto, alla parola data, significava appartenere a coloro che non hanno bisogno di essere costretti dalle leggi ma agiscono lealmente solo perché hanno volontariamente promesso di farlo.

GIURAMENTO DEL CAVALIERE

  1. Tu sarai sempre il campione del diritto e del bene contro l’ingiustizia e il male.
  2. Tu crederai a tutto ciò che la Chiesa insegna ed osserverai tutti i suoi comandamenti.
  3. Tu proteggerai la Chiesa.
  4. Tu difenderai tutti i deboli.
  5. Tu amerai il paese dove sei nato.
  6. Tu non ti ritirerai mai davanti al nemico.
  7. Tu farai la guerra ad oltranza contro gli infedeli.
  8. Tu adempirai ai tuoi doveri feudali, se non sono contrari alla legge di Dio.
  9. Tu non mentirai mai e sarai fedele alla parola data.
  10. Tu sarai liberale e generoso con tutti.

DIRITTO FRANCO

I feudatari, dapprima solo quelli maggiori, poi anche i valvassori e i valvassini, potevano lasciare in eredita` il loro feudo, ma solo ai figli primogeniti, i quali, per prenderne possesso, dovevano prestare a loro volta giuramento di fedeltà al signore da cui dipendevano. Gli altri figli, i cadetti, restavano esclusi dalla successione, non dovevano prestare alcun giuramento e avevano diritto solo ad essere mantenuti col loro cavallo. Questo accenno al cavallo e` molto importante perché già all’epoca di Carlo Martello il combattimento a cavallo era diventato caratteristico della classe feudale, cosi` che con la parola miles, milite, si intendeva regolarmente il feudatario combattente a cavallo.

GUERRIERI

I più valorosi di loro potevano mettersi al servizio di qualche signore con la speranza di ottenere poi da lui un feudo, in compenso di qualche fatto glorioso, e di potergli cosi` prestare omaggio rientrando nella classe da cui erano usciti. Gli altri restavano per tutta la vita uomini d’arme più o meno sbandati, passando da un signore all’altro, sempre alla ricerca di qualche modo di arricchirsi, predando e, magari, rubando, veri e propri cavalieri erranti nel senso più disgraziato della parola. Non si trattava infatti di quelle nobili figure di cui avrebbero parlato più tardi i romanzi cavallereschi. Erano giovanotti abituati a considerarsi superiori alla gente delle campagne e delle città, vissuti nei castelli e, a un certo momento, abbandonati a se stessi e mandati alla ventura. Vi erano in loro l’ irritazione di avere avuto la sorte avversa e l’avidità di accumulare ricchezze al più presto: sprezzanti di ogni legge, vivevano senza scrupoli aggredendo i più deboli, svaligiando le carovane dei mercanti, combattendo alla disperata al seguito di qualche feudatario nella speranza di mettersi in vista. A volte si riunivano in vere e proprie bende brigantesche, si eleggevano un capo e assaltavano chiese e conventi impadronendosi dei preziosi arredi sacri, uccidendo e devastando, veri fuorilegge che non dovevano obbedire a nessun ordinamento sociale perché non appartenevano a nessuna società. Cosi`, verso il IX secolo, si presentavano quei cavalieri che, più tardi, avrebbero rappresentato l’espressione più alta della società feudale.

MORALE CAVALLERESCA

Naturalmente la Chiesa non poteva trasformare i cavalieri in creature miti e inoffensive: erano guerrieri e tali dovevano restare in un’epoca in cui l’uomo completo era il guerriero, ma diceva loro di combattere purché l’ultimo scopo della guerra fosse la difesa della Chiesa, delle vedove, degli orfani,…Nacque cosi`, proprio in seno alla classe più rude e violenta del mondo feudale, quella morale cavalleresca che divenne la morale di tutta l’aristocrazia dei feudi. Il X e il XI secolo sono il periodo in cui avviene il grande cambiamento della cavalleria nella quale si riunirono, da una parte tutti i motivi più positivi della tradizione germanica, il valore guerriero, il disprezzo della morte, la fedeltà alle consuetudini riconosciute; dall’altra il messaggio cristiano che spinge il forte ad aiutare il debole, che considera la lotta come necessario combattimento del bene contro il male.

LA CAVALLERIA E IL FEUDALESIMO

Sebbene il cavaliere rientrasse ormai di pieno diritto in quel mondo feudale che era tutto collegato da una serie di giuramenti fatti e di parole date, e i cui membri erano per eccellenza uomini d’ onore la cui parola e il cui giuramento, anche nei tribunali, equivalevano a una prova. Il feudatario pero` si distingueva dal cavaliere in quanto aveva fatto atto di "omaggio" a un signore e aveva ricevuto da lui un "beneficio", o feudo, con le relative "immunità". Inoltre la cavalleria era aperta a tutti: chiunque poteva divenire cavaliere dopo aver ricevuto un’adeguata educazione nelle armi e dopo avere giurato fedeltà ai supremi principi di giustizia, di onore, di difesa della Chiesa, delle donne, dei deboli e degli oppressi, che ispiravano questa istituzione. Il mondo feudale, invece, era chiuso e molto difficilmente si poteva entrare a farne parte. Tuttavia, col tempo, tra feudalesimo e cavalleria vi fu un reciproco passaggio: il giovanetto destinato a succedere al padre nel feudo ricevette l’educazione di cavaliere ed entro` regolarmente nell’ordine della cavalleria; e molti cavalieri che avevano dato prove di valore a servizio di qualche signore o dello stesso sovrano ebbero feudi e fecero di conseguenza atto di omaggio.

SANTIFICAZIONE

Il futuro cavaliere deponeva la spada sull’altare, alcune preghiere accompagnavano o seguivano questo gesto, un’autentica testimonianza in proposito è un pontificale della provincia di REIMS, compilato verso l’inizio dell’ XI secolo da un chierico, in esso la liturgia comprende insieme con la benedizione della spada, delle preghiere applicabili alle altre armi o insegne: bandiera, lancia, scudo eccettuati soltanto gli speroni, la cui consegna rimase fino all’ultimo affidata a mani laiche. Segue poi una benedizione dello stesso futuro cavaliere, infine la menzione formale che la spada gli sarà cinta da un vescovo. Quanto alle pratiche accessorie, il bagno purificatore, la veglia d’armi, non sembra sempre siano stati momenti consacrati a pie meditazioni.Così recitava una nobile preghiera del XIII secolo nel pontificale di GUGLIELMO DURANTE: "Signore santissimo, Padre onnipotente…, tu che hai permesso, sulla terra, l’uso della spada, per reprimere la malizia dei malvagi e difendere la giustizia; che per la protezione del popolo hai voluto istituire l’Ordine della cavalleria fa, predisponendo il suo cuore al bene, che il tuo servo qui presente non usi mai questa spada o altra per ledere ingiustamente chicchessia, ma che se ne serva sempre per difendere la Giustizia e il Diritto".

BALDOVINO

Il re Baldovino II donò all’ordine un’ala del suo palazzo che sorgeva sulle fondamenta del Tempio di Salomone, dove vi costruì il monastero che doveva divenire la casa- madre e da cui l’ordine prese il nome. I templari ottennero l’approvazione papale nel Concilio di Troyes , e nel 1128 fu stabilita per loro una ispirata a quella cistercense grazie all’aiuto di San Bernardo di Chiaravalle che patrocinò i templari e ne ispirò la regola facendo accorrere molti giovani delle casate nobiliari d’Europa.

CAVALIERI

A capo dell’ordine vi era il maestro, la cui autorità era limitata da un capitolo composto da dignitari, faceva rispettare le regole in modo molto stretto e le infrazioni venivano punite severamente. Questo cavaliere era un monaco, non aveva cura dei capelli che portava rasati in segno di penitenza e per meglio calzare l’elmo, si lasciava crescere la barba incolta, non portava vesti colorate e nessun tipo di ornamento e dorature; e` temibile e spietato con gli infedeli, ma dolce e solidale con i cristiani.

HASTILUDIUM

Campo chiuso dove avveniva lo scontro tra cavalieri armati dalle pesanti aste di legno.

GIOSTRA

Scontri tra coppie di cavalieri.

MELEE

Era una mischia che caratterizzava il torneo ed era più cruento della giostra.

TATTICHE MILITARI

Le tattiche e le questioni strategiche più sofisticate furono introdotte dopo il Quattrocento, mentre prima i cavalieri si limitavano a combattere frontalmente, nelle elementari formazioni "a siepe" o "a cuneo" facendo sicchè lo scontro militare fosse una pura questione di forza fisica e di destrezza equestre. Infatti secondo la cultura di un cavaliere ogni sorta di artificio o stratagemma viene equiparato a slealtà e tradimento.

LA CHIESA E I PECCATI CAPITALI

I cavalieri erano soliti esibire la propria forza e temerarietà, così che nel 1129 con il secondo concilio Laterano la Chiesa ribadisce che chi fosse caduto nel torneo non aveva il diritto di essere seppellito in terra consacrata. Giacomo di Vitry (scrittore e predicatore francese) nel XIII dimostrò come in un torneo si commettessero tutti e sette i peccati capitali: la superbia, perché questo tipo di competizione nasceva dal desiderio di gloria e onore; l’ira perché questi scontri generavano odio e vendetta; l’accidia in quanto gli sconfitti si davano allo sconforto e alla prostazione; l’avidità dal momento che si gareggiava per il bottino e il premio per il vincitore; la gola, perché i tornei erano accompagnati da banchetti; la lussuria, perché i torneanti si scontravano per compiacere alle loro dame. Il pegno d’amore ostentato in torneo è, insieme con l’arme araldica dipinta su scudo, sopravveste e gualdrappa del cavallo, il caratteristico distintivo del cavaliere che prende parte ai giochi militari.

ARMAMENTO

Il perfezionamento dell' armamento, aveva chiuso più rigorosamente l’accesso di questo modo di combattere a chiunque non fosse ricco, o fedele di un ricco, e uomo del mestiere. Traendo dall’adozione della staffa tutte le sue conseguenze, si abbandonò, verso il X secolo, la corta asta di un tempo, per sostituirla con la lunga e pesante lancia moderna, che nel guerriero, nel corpo a corpo, teneva sotto l’ascella e, a riposo, appoggiava sulla staffa. Al casco fu aggiunto il nasale, e più tardi la visiera. In fine la specie di tunica di cuoio e stoffa cedette il posto a un tessuto tutt' intero di maglie metalliche, di fabbricazione molto difficile. A poco a poco il monopolio di classe, che da principio era stato imposto da semplici necessità pratiche, cominciò a passare nel diritto. Visto il serio pericolo dei cavalieri durante il torneo decisero che durante le varie gare le armi a outrance (quelle da battaglia) fossero sostituite con quelle a plaisance (armi cortesi) cioè spade dal filo smussato, lance di ferro con in punta supporti a corona, a sfera o a coppa rovesciata oppure erano accuratamente fasciate.

ISTITUZIONE

I principi dell’Europa feudale intervennero per arginare il meccanismo degli addobbamenti e per regolare l’ingresso di nuovi cavalieri. I primi provvedimenti ristrettivi che conosciamo con sicurezza appartengono all’Inghilterra e alla Sicilia normanne e alla Germania sveva: siamo in pieno XII secolo, ma chiari indizi svelano che in alcune zone europee, essi risalgono a prima.Nella pratica, si prese a negare il diritto a venire investiti della cintura e degli sproni cavallereschi a chi non avesse già in famiglia qualche cavaliere. Con il tempo la cerimonia di addobbamento (con il bagno, la veglia, le armi, i doni e il banchetto) era economicamente pesante da sopportare. Questo dimostra come nel corso del Duecento molti aventi diritto evitassero di accedere alla dignità cavalleresca e rimanessero squires, damoiseau "donzelli" insomma scudieri il rango, cioè immediatamente inferiore a quello dei cavalieri, portato da chi ambiva calzare un giorno gli sproni dorati ma che, in considerazione di quel che ciò comportava , preferiva rimanere "aspirante " per tutta la vita. Nella Britannia lo sqire era un rappresentante caratteristico di una nobiltà minore. Col tempo il termine "cavaliere" non appariva più sufficiente ad indicare il detentore della dignità cavalleresca. Il combattente a cavallo non dipendeva dalla carica di cavaliere: così piano piano bisognò distinguere tra semplici milites e milites "de corredo"(che avevano già ricevuto l’addobbamento) o come più tardi si disse equites aurati che significa "cavalieri a spron d’oro". La distinzione fra "alta" e "bassa" nobiltà si era ormai divaricata a era già chiaro che la cavalleria stava sostituendo uno strato inferiore di un’aristocrazia in crisi dal momento che le basi del suo potere e del suo prestigio non erano più all’altezza di tempi dominati dai programmi sempre più accentratori delle monarchie che da feudali si avviarono a diventare assolute e dall’economia monetaria gestita da banchieri e mercanti e imprenditori che amavano la classe borghese e le insegne araldiche, ma non si sognavano certo di farsene base per l’esistenza e tanto meno di combattere.

CRISI DELLA SOCIETA'

Sul primo, lavorarono al progressivo svuotamento di poteri e di prerogative sia giuridiche sia socio - politiche della bassa nobiltà, sul secondo crearono per la nobiltà, in modo da legarla meglio a se, una quantità di "ordini di corte" esemplari su quelli religioso e militari e sui modelli preposti dalla letteratura cavalleresca dalle fastose e immaginose cerimonie, dalle sontuose insegne, dalle fastose vesti, ma privi di un significato che non fosse connesso con l’apparato cortigiano.

ARMI

Nel XII secolo ci fu l’introduzione sui campi d’assedio e di battaglia della balestra (proveniente dall’Asia) considerata illecita dalla Chiesa per la sua potenza. Inoltre fu introdotto il bow inglese dotato di lunga gittata e di grande velocità di tiro. Queste armi da lancio avevano obbligato i cavalieri ad appesantire sensibilmente il loro armamento aggiungendo all’usbergo di maglia di ferro piastre di ferro sagomate nei punti critici: il collo, il torace, il dorso, i gomiti, i polsi, le ginocchia. Queste difese rinforzate rendevano meno necessario lo scudo, che fra l’altro era d’impaccio al combattimento d’urto in quanto il cavaliere, impegnato a sostenere la pesante asta fra ascella e braccio destri, doveva avere il sinistro libero di guidare il cavallo. Lo scudo tese quindi a scomparire (ma rimase importante tuttavia come supporto dell’arme araldica); esso, grande e "a mandorla" nei secoli XI-XII, si trasformò nel XIII in una più piccola arma triangolare e andò in seguito mutando forma fino ad assumerne di fantastiche, esteticamente decorative ma non funzionali allo scontro in campo aperto o in torneo, dal quale veniva eliminato. Questo lento processo condusse, nel Quattrocento, all’armatura interamente "di piastre": il cavaliere coperto da capo a piedi di acciaio, era un proiettile inarrestabile se lanciato in battaglia; ma bastava accerchiarlo e scavalcarlo per renderlo nullo.

POESIA

[..] e provo grande allegria quando vedo in battaglia schierati

cavalieri e cavalli armati.

Mi piace quando gli incursori

fanno fuggire gente e bestiame;

mi piace veder venir loro dietro

quantità di guerrieri, tutti insieme.

Piace soprattutto al mio cuore

veder castelli assediati,

mura spaccate e crollate

e vedere l’esercito sul bordo

tutt’intorno ai fossati recinti

e a palizzate dai forti pioli serrati.

Mi piace anche il signore,

quando primo si lancia all’assalto

sul cavallo armato, senza fremere,

per fare i suoi inorgoglire

del suo valente coraggio…

Ve lo dico: nulla per me ha sapore,

né mangiare, né bere o dormire,

quanto il sentir gridare: "Avanti !"

dalle due parti, e sentir nitrire

cavalli disarcionati, nella foresta,

e gridare: "Aiuto! Aiuto!"

e veder cadere nei fossati

grandi e piccoli nella prateria,

e veder i morti con nel costato

pezzi di lancia e con i loro stendardi.

Gran guerra fa di un sire avaro un generoso

Per cui mi piace dei re vedere la pompa,

che abbiano bisogno di pioli, corde e spade,

e siano le tende drizzate per accamparsi.

Ah! Scontrarsi a migliaia r centinaia,

sì che dopo di noi se ne canti la gesta!…

Trombe, tamburi, bandiere e pennoni,

insegne e cavalli neri e bianchi

presto vedremo: come sarà bello vivere!

si porterà via la ricchezza agli usurai,

e per la strada non trascorreranno più

i giorni tranquilli, né borghesi senza fastidi

né mercanti che verranno dalla Francia,

ma sarà ricco chi ruberà di buon cuore!

 

VALORI ETICI MORALI

Il cavaliere appartiene ad una comunità d’eletti, distanziata dalla grande massa d’uomini comuni. I valori etici del cavaliere sono quelli militari, dell’onore, della fedeltà, delrispetto reciproco, dei costumi gentili e del culto della donna. Tali valori esercitarono un grande fascino anche su uomini di strati sociali sorti più tardi.

MILES CRISTI

Già nel x secolo compare in una biografia individuale di S. GERAUD D’AURILLAC, dovuta all’abate Oddone di Cluny, la figura del cavaliere come miles Cristi, il cavaliere di Cristo.

CICLO CAROLINGIO

Il primo ciclo, epico – religioso, fondato sulla dedizione alla fede all’imperatore, esaltava le imprese dei paladini (compagni di palazzo) di Carlo Magno, come difensori della cristianità, contro i Saraceni. A questo ciclo appartiene la Chanson de Roland, l’opera più antica (tra il 997 e il 1130), la più famosa e la più bella della letteratura epica francese. L’ignoto autore canta la storia di una sconfitta quella che il 15 agosto 778, distrusse a Roncisvalle la retroguardia dell’esercito di Carlo Magno comandato da Rolando, prefetto della Marca di Bretagna, ma al di là del modesto fatto d’armi, il poema narra le gesta leggendarie di Carlo Magno e dei suoi paladini, il martirio di Rolando, la distruzione degli infedeli, la punizione dei traditori L’eroe cristiano Rolando, nipote di Carlo Magno, diventa un personaggio di tale fama che poco importa se fosse realmente esistito o meno, il fatto è che la sua morte dette luogo al nascere di una tradizione epica che venne assunta nell’XI secolo, a paradigma di martirio per la fede. La sua fine, narrata dai versi commossi della Chanson, è quella di un santo vassallo d’un DIO guerriero. Prima di chiudere gli occhi, il paladino rivolge un autentico canto d’amore alla sua lucente spada DURENDAL, nel pomo della quale sono racchiuse preziose reliquie, e indi porge in atto supremo di fidelitas, il suo guanto a DIO, alzandolo verso il cielo, che immediatamente si apre, per consentire a una turba di angeli di scendere ad accoglier l’eroe e portarlo in volo alle porte del paradiso. La Chanson de Roland offre inoltre un primo importante modello di codificazione del sistema etico – cavalleresco. I due poli attorno ai quali esso ruota sono il valore e la saggezza. Termini l’uno complementare dell’altro (il risultato è un armonico equilibrio), il prode che non sia un saggio è un folle e il saggio che non sa essere prode cade per contro nella viltà. Ma, in effetti, di rado il cavaliere possiede entrambe le virtù in armonico rapporto; esso nasce piuttosto dalla fratellanza d’arme, compagnonaggio di uno prevalentemente forte di uno prevalentemente saggio. Insomma il perfetto cavaliere è il risultato di uno spirito di gruppo e di corpo.

CICLO BRETONE

Dal XII secolo, in Francia settentrionale, si era diffuso un altro ciclo, relativo alle gesta di re Artù e dei suoi cavalieri (tutti di pari dignità e commensali alla Tavola Rotonda). La materia del romanzo cavalleresco è tratta prevalentemente de antiche leggende bretoni, risalenti al patrimonio folkloristico delle popolazioni celtiche della Francia e dell’Inghilterra. Esse si incentravano sulla figura di un mitico re britannico, Artù, che sarebbe vissuto nel VI secolo dopo Cristo e dei suoi cavalieri Lancillotto, Ivain, Perceval. Il ciclo bretone di ispirazione epico – amorosa, si differenzia profondamente da quello carolingio, sviluppatosi in ambienti di squisita spiritualità cortese, ha al suo centro, non l’amore per la patria e la fede, ma il gusto individuale e aristocratico dell’avventura, il desiderio di gloria e soprattutto l’amore. C’è il culto consapevole dell’amore, il senso che l’amore va protetto e alimentato, l’amante prova affetto e devozione per la sua amata. Ogni pensiero è per lei. Cortese e cavalleresca è anche l’infinita pazienza e la perfetta abnegazione dell’uomo che, sopprime la propria volontà e il proprio essere, davanti alla volontà e all’essere della donna. Trova poi la sua espressione più alta e negativa nella più famosa storia d’amore del medioevo: quella di Tristano e Isotta, cantata da Beroul e Thomas. Il racconto è ricco e abbastanza articolato e narra una tragica vicenda di amore e morte. La passione invincibile che dopo aver bevuto un filtro magico, lega indissolubilmente Tristano e Isotta, si scontra con il ruolo del re Marco di Cornovaglia, affezionato ad entrambi (Tristano è un coraggioso e fedele cavaliere del sovrano, al quale ha condotto in sposa Isotta). Il conflitto fra lealtà e amore conferma le radici cortesi del racconto, ma giunge qui ad esiti più radicali: la forza travolgente dell’amore, impossibile in vita, si realizza con la morte dei protagonisti. Se il cavaliere delle Chansons epiche era tutto ardore guerriero e fede cristiana e in lui si rifletteva la Cristianità della Reconquista e delle Crociate, quello del romanzo arturiano è ben più complesso: accanto agli scontri (piuttosto duelli che non battaglie) e alla cacce, in questi racconti vibra la tensione erotica e spirituale della conquista della dama e attraverso di essa dell’affermazione di sé. Il cavaliere continua ad essere un eroe guerriero, ma diviene soprattutto il tipo umano del cercatore di un’identità e di un’autocoscienza, che tuttavia gli sfuggono. Inquieto, solitario, costretto a correre in un paesaggio onirico di foreste e brughiere, da una prova all’altra, questo cavaliere errante è stato oggetto di studi non solo da parte di letterati, ma anche di antropologi e psicanalisti che ci hanno insegnato a cogliere l’avventura cavalleresca costellata di fate, draghi, mostri, castelli incantati, come metafore. L’avventura si correva sul serio, i sogni si inseguivano realmente ed erano quelli di un buon matrimonio possibilmente con una dama di condizioni più elevate delle proprie. Urge questa volontà’ di affermazione sociale. Sorge paradossalmente uno strana contrasto tra la dimensione professionale e quasi vocazionale d’esser cavaliere. Poeti, trattisti, perfino teologi sembrano non parlare d’altro, pittori ritraggono nel loro splendore cerimonie d’addobbamento e l’alta aristocrazia, persino i re tralasciano i loro titoli gloriosi per fregiarsi del titolo di cavaliere (vedi Riccardo Cuor di Leone). Esso viene intensamente ambito anche dai nuovi ceti ascendenti, dai nuovi ricchi della società urbana.

CICLO CLASSICO

Accanto ai cicli carolingio e bretone si hanno narrazioni del ciclo classico. Il ciclo dei cavalieri antichi, porta alla ribalta personaggi del mondo classico, come ad esempio Enea, Alessandro, trasformandoli in cavalieri medioevali. Questi romanzi erano soprattutto indirizzati ai "governanti", essi volevano fornire esempi di grandi uomini, gli eroi greco – romani, a tali eroi venivano attribuiti modi di pensare e comportamenti dei cavalieri di Carlo Magno e di re Artù senza alcun rispetto della loro effettiva fisionomia storica. Per queste motivazioni questi romanzi riflettono il "travaglio storico" della società comunale.

SOCIETA' FRANCO-OCCIDENTALE

Società d'oltremare che consisteva in quattro stati indipendenti i quali erano la Contea di Edessa, il Principato di Antiochia,la Contea di Tripoli e il regno di Gerusalemme; quest'ultimo esercitava una specie di supremazia sugli altri in quanto era il simbolo della Crociata.

 

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